Del Nepal non si può che innamorarsi: intatto e fermo al Medioevo, riesce ad infondere profonda serenità fin dalla sciarpa di benvenuto appena atterrati. Una ricompensa calma per chi, come noi, viene dal caos dell’India e ha viaggiato la notte.
La valle di Kathmandu: immerse nel verde scene di vita contadina, bambini paciocconi, vecchi ospitali e baracche di colorate maschere in cartapesta.
Bancarelle di pomodori, rosari, collane di fiori, peperoncini e frutta, animali come vittime sacrificali, preludono ad un luogo di grande spiritualità, il Tempio Dakshinkali dai paramenti rosso e oro, che si raggiunge scendendo a piedi una cupa gola tra due fiumiciattoli sacri: qui i fedeli lavano gli animali che offriranno alla dea Kālī, mortifera salvifica divinità indù. Di tutte le mie discese agli inferi la migliore, direi quasi allegra.
27° 42′ 29.941″ N – 85° 19′ 14.094″ E
Non ci sono stranieri, a parte noi e l’atmosfera è distesa. Inizia la cerimonia: ci assorda il silenzio mistico e qualcuno cade in trance. Risuonano a più voci le campanelle. Ci invadono un incenso irrespirabile e un tanfo di galli e capretti e colano la cera dei lumini e il sangue, quello stesso sangue con cui viene imbrattata a mani nude dall’officiante la statua di pietra nera della dea, adornata con fiori rosa e arancio e una collana di teschi umani, dalle mille braccia vitali e mortali al tempo stesso; quello stesso sangue che scorre sacro nelle scanalature del tempio per rivivere profano negli abiti rossi delle donne di Durbar Square nel loro giorno: esse ballano digiune pregando che i mariti vivano a lungo per mantenere i loro gioielli e i loro capricci.
Oppure le scorgiamo parate a festa nei pressi del Golden Temple, per celebrare il babbu con tutta la famiglia e con l’amato yogurth di bufala, mentre ci perdiamo in una magnifica Patan in fermento, tra preghiere, canti, musici pensionati, vicoli, dedali, corti dove sono sempre presenti un tempio o una stupa, anche occasionali, estemporanei; dove scuoti le tue vibrazioni energetiche con le campane tibetane appoggiate direttamente sulla testa e trovi l’affare nelle sciarpe di pregiato filato di yak; dove ci si ingozza dei deliziosi momo o di jalebi fritti.
Rossa la Kumari, dea bambina in carne ed ossa che si affaccia da una finestrella della sua residenza regale, rossi gli ornamenti delle sue 125 future piccole assistenti, in concorso per essere selezionate. Rosso il menarca che la renderà terrena per poi venire ripudiata.
Rossa la tunica dei monaci del Tempio delle scimmie Swayambhunath, un complesso di templi induisti e buddisti incastonato nelle catene montuose più imponenti del mondo, cui si arriva scalando centinaia di afosi gradini fino ad una stupa enorme, ove echeggiano imperturbabili i mantra rotanti Om mani padme hum – saluto il gioiello del loto – mentre svolazzano le bandiere divine.
Mi incanto sull’affascinante terzo occhio della gigantesca Boudhanath Stupa, così come amo il rosso bindi del qui e ora che in senso di ospitalità ci hanno applicato in fronte all’entrata dei templi o alla cena locale.
Rosso fuoco catartico delle pire del Pashupastinath Temple, consacrato al dio Pashupati, manifestazione di Shiva, che purifica i corpi nel passaggio a miglior vita, che non ha niente di drammatico, anzi è una liberazione, una possibilità di rinascita, un’ascesa più prossima al nirvana forse o forse no… mentre i bambini fanno il bagno nel fiume Bagmati e il vento si disperde nelle ceneri.
Rosso anche il termometro, dalla febbre nessuno di noi scampò in quel lontano agosto. Ma a me il temibile rosso piace, in qualunque sfumatura, nel bene e nel male.
Penna e scatti di Eva Agostinelli
La colonna sonora per esplorare questi luoghi?
