Ovvero come far perdere le proprie tracce in acqua e scegliere il giusto equipaggio
Ci sono cose che capitano e dolori che ti sei procurata anche con una certa dedizione. O almeno da cui non ti sei sottratta con altrettanto impegno.
Tra quello che capita però c’è tanto, tantissimo che ti può riportare sulla giusta via di quell’impegno, sulla dedizione a sottrarre anziché sommare i dolori collaterali fino ad allontanarti anche da quello originario. Ecco io l’ho fatto grazie a tre fattori fondamentali: uno splendido sabato di metà settembre che ha deciso di indossare un costume da metà luglio, una manciata piccina picciò di amiche vere, un vero e proprio nocciolo. Infine, una pagaia, la prima che avessi mai preso in mano, bianca e lunga come un fantasma sì, ma che si è rivelata fedele e docile come Casper!
È sabato mattina, dicevo e siamo in ritardo. E che a nessuno scappi un “come al solito!”. Siamo un gruppo di donne variegato ma puntuali. Sempre! Sempre ma non quella mattina. Acceleriamo il passo sul lungomare, il Golfo dei Poeti si apre romantico in una luce accogliente ma noi la tagliamo con l’incedere più isterico di cui siamo capaci. Arriviamo a destinazione: un casotto di legno in cui ci aspetta la nostra guida che ha messo insieme un altro gruppetto di avventurieri e, salvo rarissime eccezioni, novizi. In pochi minuti siamo pronte per la lezione introduttiva su “come si usa la pagaia o almeno si evita di sbatterla in testa ai compagni di viaggio e a se stessi”. Al primo movimento mi scivola di mano, rido. Cominciamo bene!
Il primo sguardo alla canoa e all’acqua mi fa l’effetto “fondo del precipizio”: sapete quell’istinto per cui ti tuffi a capofitto da qualunque altezza se ti avvicini troppo al bordo? Ecco così! Il mare è docile e calmo, lingue blu e verdi che agitano la mia impazienza.
Ci aspettano due canoe doppie, una blu e una gialla e arancione. Scelgo il mio timoniere, perché io ho l’animo da mediano di fatica e da fantasista, ma qui serve metodo e occhio vigile e io somiglio sempre più spesso alla pesciolina Dory. “Organizzata, non ordinata” è una delle mie migliori definizioni di me stessa. L’ordine me lo darà quella donna dagli occhi color del mare, che mi guiderà dal posto alle mie spalle e io, da buon mediano, vogherò come se non ci fosse un domani.
Foto di rito, sorrisi, primi affondi della pagaia e poi, piano piano, ci stacchiamo dalla riva. Passiamo in mezzo alle barche attraccate nel porticciolo in maniera incredibilmente liscia e ci allontaniamo ancora.
Quello di vogare è uno sforzo che non conosco ma che trovo subito congeniale. Forse è la scoperta di essere anch’io dotata di dorsali oppure l’entusiasmo da megattera felice che ritrova l’acqua salata, i fondali, l’aria di mare. Il miracolo vero è essere affiancata da queste donne: siamo quattro angoli di Toscana, quattro province diverse, quattro colori diversi di occhi e di capelli, la pelle di quattro colori differenti. Io e Serena ce la giochiamo per chi riflette di più il sole e concordiamo di concludere a pari merito.
Ogni volta che guardo verso l’acqua ci faccio cascare dentro un po’ di dolore e quello scivola giù. Ogni ripartenza è più leggera, mentre io e il mio timoniere voghiamo in perfetta sincronia. Attraversiamo una secca incagliandoci tra alcuni scoglietti bassi, la canoa blu all’andata e l’altra al ritorno. In mezzo ci facciamo un bagno, buttandoci in acqua senza la certezza di saper risalire a bordo, dopo.
Stiamo in giro più di tre ore, con i capelli gocciolanti, le canoe sballottate quando il mare si fa più nervoso e rende più complicato pagaiare sulla via del ritorno. Scopriamo almeno tre grotte, la prima così buia che ci vogliono alcuni secondi per far abituare gli occhi; l’ultima così piccola che dobbiamo entrarci a turno e così turchese da darci l’illusione di essere un passaggio segreto che collega ai caraibi.
Mi sento bene, con la pelle che tira per il sale, il costume ancora umido e i muscoli svegli. Quando il dolore ti si stacca di dosso è come scrollarsi di dosso rughe, foglie secche, giornate storte. Mi sento ringiovanita, anche quando la guida accenna al fatto che ha iniziato quell’attività poco più di dieci anni prima, dopo l’esame di maturità e io sorrido, pensando che ne sono passati venti dalla mia tesi di laurea.
Rimettere i piedi a terra dopo ore di canoa è come smettere di ballare all’improvviso senza potersi fermare. Le onde che hai vogato ti sono tutte addosso. Muovi qualche passo squilibrato da bambina che sta iniziando a camminare e litighi con la terraferma perché è troppo stabile. Un ultimo sguardo all’acqua, poi ancora al molo e ti rendi conto che da qualche parte in mezzo al mare hai fatto perdere le tracce a quel dolore che avevi in mano alla partenza, insieme alla pagaia.
È in mare che fai perdere meglio le tue tracce e lo fai velocemente solo se ti scegli l’equipaggio giusto con cui navigare.


Quando smetti di ballare, poi e ti affidi di nuovo alla stabilità della terraferma, con lo stesso equipaggio puoi continuare a festeggiare. Così, in calzoncini e maglietta bagnati perché il costume sotto non si è ancora asciugato, abbiamo camminato due chilometri sotto il sole e steso gli asciugamani sui sassi piatti di una caletta. Lì, proprio lì, ho riscoperto il brontolio di uno stomaco vuoto e affamato: ho affondato i denti nella mia schiacciatina al tonno e bevuto una birra tenuta in fresco nell’acqua di mare. E sì che abbiamo festeggiato. Meglio di una ciurma di pirati.
Penna e scatti di Monia Scarpelli
La colonna sonora per esplorare a suon di pagaie?
